Scusatemi se sono piccina

Cristina Venedict

Non ditemi niente, non è colpa mia

se sono piccina

e le cose sono tutte più grandi di me.

A volte ci gioco a rimpiattino,  mi nascondo

e spesso le sotterro, le appendo ad un filo

e ancora io mi celo, ma è un gioco

perverso, qualcuno qualcosa là in alto

giù in basso celato ai miei occhi innocenti

già mescola trame con trappole vento

cemento lucore che abbaglia

e buio che spegne perfino la luna.

Natale

 

La bambina delle favelas, con il suo incanto
dentro la pancia,  si piega sotto le braccia
della notte con un piccolo fiume
che le scorre improvviso tra le gambe.
Poi si addormenta su un giaciglio inventato
e sogna larghe pareti di cielo e, soprattutto,
le strade che son la sua casa.
Una bava di luce scivola sulle sue ciglia
e la desta: il suo piccolo Jesus vuole
stare dentro i dodici anni del suo abbraccio
e non chiedono altro, la bambina delle favelas
e il suo bambino, che stare abbracciati
fino a che non s’addormenti il mondo

 

Agenda 2010

Da mezzo secolo  la casa è ormeggiata
dentro un’acqua in burrasca.
Piano l’hanno lasciata tutti come fumo
che si mescola alle nuvole.
Guarda: è piena di falle, potrebbe
andare a fondo, trascinarmi
nell’acqua cupa .
Io non conosco la lingua muta dei pesci,
delle attinie, occhi nel buio,
rocce muschiose, tentacoli,
il freddo della notte.

*                                                                                  

Qualcuno se n’è andato.
Qualcuno ogni giorno va via
e lascia un vuoto di stelle,
parole incompiute nella gola,
frasi che non sapevano la strada
e poi rimane questo gelo delle mani
e delle braccia inermi
che stanno lì, ferme
(come un soldato che ascolta
gli ordini e vorrebbe rompere le righe)
e col pensiero sono due archi a sollevarsi,
morbidi, abbracciare e dire
le parole rimaste chiuse in gola.

*

e quando saremo ricoperte di muschio,
io e la mia casa,
chi ci cercherà non saprà da quali ferite
sgorga il sangue, se dal mio corpo
o dal suo grande corpo
che mi ha protetto dalla pioggia e dal vento,
lei, madre cava  che invecchia  accanto a me
e con me frana, lentamente.

Nell’agenda del 2010

 

 

 
che nuove lettere racchiude stasera
la parentesi tonda della luna?
che discorso nasconde,
con il punto di stella,
che io non comprendo?

sta lì, oltre gli sfilacci  rosa
del cielo sulle case,
muta e misteriosa e,
sospesa in mezzo alle incertezze,
balbetto le mie tante ferite,

piccola amazzone che, come
tutte le cose, dal suo stesso racconto
viene cancellata.

*


Sono in lutto per tutte le morti dell’universo,
per la farfalla che cade come una foglia
e porta sulle sue ali misteri dell’aria e rune.

Sono in lutto per la bambina che non vide
mai i miei occhi, e scalpitò via
senza saperlo.

Piango  le case senza tetto e i letti vuoti,
la terra spalancata e il mare
gonfio di sirene addormentate

E  sulle mie piccole spalle
piango me stessa, io
che non voglio andare via.

*

Se credevo di camminare
su una mano morbida e stellata,

se credevo eterno il fiato della madre
e le gambe che camminano
guidate dal sorriso

se pensavo che le malattie del corpo
mi avrebbero abbandonata
se non immaginavo la solitudine
un pozzo colmo di ciottoli pesanti…

se pensavo azzurro e cielo
e sempre scivolavo in grigio e fango

Il cielo

Magdalena Wanli

 

Il cielo sempre uguale sembra non leggere il tormento,
il respiro di lei che si fa affanno, scuote il petto,
fa tremare le mani che nel tempo passato erano rami
che si tendevano verso l’azzurro silenzioso.
Ma il cielo non ha porte e, se ascolta,
le sue orecchie sono quelle dell’erba o di una pietra.
Il cielo è vuoto, un palco in cui si avvicendano
il tempo luminoso e quello oscuro, e lo scenario cambia
come cambia il tempo, le stagioni, come si accalcano
stelle pianeti costellazioni e la luna silenziosa.
E’ un palco senza attori, senza storie, senza qualcuno
che le scriva o le racconti.
Ha parole secche sulle labbra.
Lei sta a guardarlo, a volte.
E’ lontanissimo, assente, ormai vuoto di senso.
Il cielo era preghiera.
Era la pioggia che scivolava sopra i vetri,
un pianto grande come il mondo, e poi era il silenzio
in cui si apriva il velluto piccolo dei fiori.
Era parole di carta, era canzone sussurrata,
era il sentiero erboso pieno di pietre e di sterpaglie
che si arrampicava su scale misteriose.
Il cielo era lei, la sua voglia di cantare sottovoce,
di stringere le mani della gente, era il suo sguardo
stupefatto quando nubi caracollavano nell’aria
e poi brucavano le stelle.
Forse il cielo finisce, come la speranza.

Segni

Come nei fumetti, una serie di punti
sta a significare ciò che è troppo veloce per l’occhio,
vorrei fissare questo tuo disperato

sparire in segni
che ti raggiungano oltre
la curva della luce
dietro cui abiti

sono frusciati via col tuo corpo
nascosto e, per sempre, trattenere
le tue troppo effimere apparizioni
al desiderio della mano che scrive.

Willem Van Toorn

 

La vita

 

Forse l’esplosione di una stella,
un puntino di luce in mezzo all’erba.
E poi.   Poi il mistero della vita
che si fa raggio e moltiplicazione,
matematica e sogno azzurro.
I secoli non c’erano,  non ci sono
tempo   spazio   luogo
senza la mia mano a misurarli,
lo sguardo a penetrarli,
la testa a fare il calcolo dei giorni.
Un brillìo, un palpito,  un ruscello
d’acqua e di sangue,
una corsa dentro una parentesi.
E poi il silenzio, ancòra.
O una luce intermittente.
Chissà dove.

Isola

Padre, io a te
io inchiodato a te su questo scoglio
divino che conosci la tua alba
e allacci la tua potenza al fulmine
da questo culmine di spasimo
io vinto mando a te
vincitore di padri
la prora disorientata delle mie parole.
Concedi a coloro che erano ciechi
e a dismisura adesso vedono,
rotto il sigillo della fiamma,
l’ustione della carezza, il fragore
del pugno, ora che sanno
il tossico del palmo e delle nocche
ed è notte, profonda notte
a occidente di ogni immaginare
ora che le iridi conoscono
le costellazioni del dolore e del piacere;
concedi loro di sopportare
per ogni ciglio sospeso alle tenebre
al tramonto di ogni palpebra sfinita
la pronuncia dell’alba e del crepuscolo
e il rombo immenso, che sale dall’uomo.

Pierluigi Cappello

Solitudine

Ho le braccia dolenti e illanguidite
per un’insulsa brama di avvinghiare
qualche cosa di vivo, che io senta
più piccolo di me. Vorrei rapire
d’un balzo e poi portarmi via, correndo,
un mio fardello, quando si fa sera;
avventarmi nel buio per difenderlo,
come si lancia il mare sugli scogli;
lottar per lui, finché non rimanesse
un brivido di vita; poi, cadere
nella più fonda notte, sulla strada,
sotto un tumido cielo inargentato
di luna e di betulle; ripiegarmi
su quella vita che mi stringo al petto –
e addormentarla – e anch’io dormire, infine…

No: sono sola. Sola mi rannicchio
sopra il mio magro corpo. Non m’accorgo
che, invece di una fronte indolenzita,
io sto baciando come una demente
la pelle tesa delle mie ginocchia.

Antonia Pozzi

 

 

La vedova

Emila Sirakova

Il freddo le ha deformato le dita.
L’arsura le ha coperto le braccia di vesciche.
Ora l’età le è arrivata al cervello
dandogli forma di nube tempestosa.
Non porta il velo a lutto,
cammina nuda,
senza peluria, senza piume,
come una lucertola.
E’ brutta.
Il cane fiuta la sua solitudine
e uggiolando fugge.
Lei provocante odora
di
assenza.

Nina Cassian

Dì loro

Passa un uccello
lampo di piume
nel messaggio della sera
VA’
VOLA

E DÌ LORO
Dì loro che vieni da un paese
nato in una stretta di mano
un paese semplice come buongiorno
dove le notti cantano
per scacciare la paura dei domani
dì loro
che siamo un boccone
fatto di sette isole
come i sette colori della settimana
ma che non viene mai
la domenica di noi stessi
VA’
VOLA

E DI’ LORO
Dì loro che le maree
sono la chiave dei nostri ricordi
che a volte il passato soffia
per ravvivare il nostro fuoco
perché un popolo se dimentica
ignora poi il colore dei giorni
va come un cieco nel buio presente
dì loro che andiamo da un’isola all’altra
sul ponte del sole
ma che non ci sarà mai troppa luce
per schiarire
i nostri morti
dì loro parole che vanno di creolo in creolo
sulle spalle del mare
ma non ci sarà mai abbastanza sale
per bruciare la nostra lingua
VA’
VOLA

E DI’ LORO
Dì loro che a forza di amare gli uomini
abbiamo imparato ad amare l’arcobaleno
e soprattutto di’ loro
che ci basta un paese da amare
che ci basta avere racconti da dare
per non tremare più di notte
che ci basta un uccello a cantare
per aprirci ali libere umane
VA’
VOLA

E DI’ LORO…

Ernest Pépin

 

La luce caduta della notte

Laura Racero

spargi sfinge
il tuo pianto sul mio delirio
cresci cosparsa di fiori nella mia attesa
perché la salvezza celebra
l’abbondanza del nulla

spargi sfinge
la pace dei tuoi capelli di pietra
sul mio sangue rabbioso

io non capisco la musica
dell’ultimo abisso
io non so del sermone
del braccio di edera
ma voglio appartenere all’uccello innamorato
che trascina le ragazze
ebbre di mistero
amo l’uccello sapiente in amore
l’unico libero

Alehandra Pizarnik