Alle mie domande

Everett-Millais-Sidal (ètude pour Ophelie)

Alle mie domande

lei non risponde
perché lei non le coglie.

Il suo corpo è un letto di foglie
ingannevole, timido.

Non m’ascolta, s’agita.
S’addormenta, trema.
Trema nel sonno.

Il suo corpo è uno strato di foglie
arrendevole, umido.
Un ricordo, un brivido.

Lei sprofonda nella terra.

Io la cerco inutilmente
con le mani
mentre un’altra l’afferra.

 

Diego Scarca


					

Baci

Marc Chagall


VII

Abbiamo visitato
la città con i nostri baci.

Ci siamo baciati davanti
al monumento al milite ignoto
che ci osservava impaurito.
Ci siamo baciati di fianco
al vigile urbano impettito
e furente, e poi ci siamo baciati
di nuovo, in modo inaudito,
scandalizzando la gente.

Abbiamo attraversato
la città con i nostri baci,
eludendo veicoli e ingorghi,
prendendo in giro la folla,
baciandoci in modo scomposto,
in modo sicuro,
al momento opportuno.

Ci siamo innaffiati di baci:
io folle e tu giovane,
io vecchio e tu bella.
Abbiamo brindato
alla buona novella.

Ci siamo graffiati di baci
sul collo e le ascelle.
Hai slacciato le scarpe e le calze.
Le hai gettate nel fiume.
Una persona gentile è corsa
a rincorrerle.

Abbiamo visitato la città
a forza di baci.
Da piazza San Carlo
a piazza Statuto, da Porta Palazzo
alle porte in rovina, dalle vetrine
del centro ai giardini reali,
da Superga a Caselle.

Abbiamo rovistato
la città con i nostri baci.
Ci siamo baciati in pallidi androni,
in cortili barocchi, in giardinetti
stregati. Siamo scesi
in sotterranei sinuosi e saliti
in soffitte assolate.

Abbiamo inciso le nostre iniziali
su una lapide bruna
che hai coperto di viola
con la tua cipria e il tuo trucco.

Ci siamo ubriacati di baci,
inseguendo una mappa fasulla,
un percorso proibito,
perdendo di vista la rotta,
dimenticando la vita…
Ci siamo baciati

di fronte alla Sfinge.
Abbiamo sfondato il portale
del Duomo a colpi di baci.
Guardando la volta e gli affreschi,
ci siamo baciati di nuovo,
ubriachi. Un cappellano
ci ha colti in flagrante
e ti ha osservata estasiato.

Abbiamo sfidato i tifosi
nelle strade del centro.
Li abbiamo fatti impazzire
di rabbia, gelosi.
Li abbiamo messi a tacere
baciandoci in modo tremendo,
in modo chiassoso, una volta
sul mento, un’altra sugli occhi
e poi sulla bocca.

Abbiamo sbirciato la città
con i nostri occhi.
Non riconoscevamo dall’alto
il Monviso, il Rocciamelone
e il Gran Paradiso.
Abbiamo sorriso lo stesso
e ci siamo baciati
in modo convulso e sconnesso.

Abbiamo ridipinto
la città con i nostri baci,
colorandola come per prepararla
a un carnevale.
Abbiamo aggiustato il fanale
di un autobus e lo abbiamo fatto
brillare di una luce diversa.

Alla Gran Madre abbiamo restituito
il suo rosa. A piazza Vittorio
un rosso vermiglio. A via Po
un azzurro un po’ audace.
A piazza Cavour e a piazza Carlina
i colori del giglio.

Abbiamo coperto le ingiurie
e gli insulti sui muri.
Io folle, tu bella.
Io ingenuo, tu artista.
Ti ho lasciato scegliere
le tinte e i pennelli.

Abbiamo ridato al re
di piazza Castello il suo trono.
Al cavallo di bronzo
un tocco di tono
e un po’ di allegrezza.
Al principe armato abbiamo tolto
l’elmetto e aggiustato i capelli,
rendendolo meno severo.

Abbiamo devastato la città
a forza di baci.
E adesso, a ripensarci,
non mi sembra vero.

circeo59


Catch cradle



 

Raccolta dentro il caprifoglio
raccontavo di prati
che mi nascevo margherita e il sorbo
rischiarava di rosso il muro a secco
frasi murate
percorsi trattenuti da petali di ferro
per non appassionarmi alle rovine
ai rovi che parevano rosari
museruole al mio sole di colomba
nata per giorni duri

prendi il rocchetto, lo possiamo svolgere
tra le braccia dei vivi
sequenze stabilite nello spago
sembrano disegnare il lato stanco
la culla del silenzio a contenere
impossibili forme tra le dita

dall’alto del forame circolare
l’alba cade sui ruderi di un sogno
sovverte la parabola del tempio

e qui tessiamo notti di fortuna
con il filo di luce d’un sorriso.

CRISTINA BOVE

In terra sconsacrata


A Francesca

Tu, giovane, non sai. Diversamente
sa chi ha dormito nel cavallo e ha visto
l’alba di Troia.
Foto sui comodini. Urla. Lacerti.
Delicati guerrieri. Mani.
Mani.

Funerali sugli alberi di pesco.

Qaunte candele ancora accese? Quanta
porpora affranta?

Poi la voglia di polvere. Il confine.
Trovarvi il liuto e l’osso ancora ambrato
del primo figlio. Gli occhi
chiusi sul mento.

Cosa mostrarti? Forse il sole estremo
e il suo zenit di paglia?
La canzone che, notte dopo notte,
scavai al tuo fianco?

La cutrettola apprende il breve grido
quando spiuma nel sangue, quando nasce
oltre la ruga della madre. Tu
venuta a sospingermi sul fiore
e sull’esile corsa.
Non ricordare, ma pronuncia
il fuoco,
il suo suono alfabetico, il suo tenue
patto di carne.

Inedito

Cristina Sparagana

Arietta dei bambini

                                        Anji Johnston

L’aria, la prima
che hai respirato, era aria di marzo e di mattina.
Il sole
ardeva quieto nella sua onda
dalla finestra grande perché grande
era il cuore
e disinteressato
come il sole che appoggia la sua luce sulle acque
del fiume
e naviga chiaro
fino al mare
dove lo spazio è tutto attraversato
da fischi di gabbiani e piú niente
fa male. È bello custodire
l’aria nuova sul viso di chi nasce, con mani
umane conservare
sacro il sacro, fare l’aria piú chiara dove tocca
il cuore, perché il cuore sia semplice e leggero
come un aquilone
e altre cose che vanno dalla terra al cielo.
Bello è dire farò quello che posso
e piú di me, come tutte le altre sulla terra: prendi,
vita
dalla mia vita
la tua innocente libertà.

M. Grazia Calandrone

Para Tacha (Per Tacha), José Hierro

anji  johnston

Una esfinge pigmea. Se diría

que no está aquí: no ve, ni oye, ni huele.
Esta no es una Marta que currele,
sino María de la fantasía.

Susurra. Hormiga china, todavía
no distingue la erre de la ele.
Posiblemente un día se rebele
su Marta agazapada en su María.

Entonces, cara y cruz por siempre unidas,
sin eses de costuras descocidas,
Martamaría cantará su dúo.

Pero mientras no ocurra tal encuentro
es un búho que mira desde dentro
de un búho que está dentro de otro búho.

El Abuelo Pepe

(Per Tacha)

Una sfinge pigmea. Si direbbe
che non stia qui: non vede, non sente, non odora.
Questa non è una Marta che sgobba,
ma una Maria della fantasia.

Sussurra. Formica cinese, tuttavia
non distingue la erre dalla elle.
E’ possibile che un giorno si ribelli
con Marta accovacciata sulla sua Maria.

Allora, faccia e croce unite per sempre,
senza queste cuciture scucite,
Martamaria canterà il suo duetto

Però se non accade tale incontro
sei un buco che guarda dentro
un buco che sta dentro un altro buco.

Nonno Pepe

trad.  Blumy

Alfonsina y el mar

 
Per la soffice sabbia lambita dal mare
la sua piccola orma non torna più
e un sentiero solitario di pena e silenzio è giunto
sino all’acqua profonda
e un sentiero solitario di pura pena è giunto
sino alla spuma

Lo sa Dio quale angoscia ti ha accompagnata
che antico dolore ha spento la tua voce
per addormentarti cullata dal canto
delle conchiglie marine
la canzone che canta nel fondo oscuro del mare
la conchiglia

Te ne vai Alfonsina con la tua solitudine
quali nuove poesie sei andata a cercare?
E una voce antica di vento e di mare
ti lacera l’anima e là sta chiamando
e tu fin là vai, come in un sogno,
Alfonsina addormentata, vestita di mare

Cinque sirene ti condurranno
per sentieri di alghe e coralli
e fosforescenti cavallucci marini faranno
una ronda al tuo lato.
E gli abitanti dell’acqua ti nuoteranno
subito al lato

Abbassa un po’ di più la luce
lascia che dorma in pace,
e se chiama non dirgli che ci sono,
digli che Alfonsina non torna,
e se chiama non dirgli mai che ci sono,
digli che me ne sono andata.

Te ne vai Alfonsina con la tua solitudine
Quali nuove poesie sei andata a cercare?
Una voce antica di vento e di mare
ti lacera l’anima e sta là chiamando
e tu vai laggiù, come in sogno
Alfonsina addormentata, vestita di mare.

Ariel Ramirez


Farfalla

 

I

Dirò: sei morta?
con una vita di ventiquattr’ore!
Troppa amarezza
in questo scherzo del creatore.
Riesco con sforzo
a pronunciare “vita”
nell’unità di data
di nascita e di consunzione
fra le mie dita:
mi confonde obbligare
una di queste grandezze
nello spazio di un giorno.

II

Perché i giorni per noi
sono nulla. Un vuoto
zero, nulla. Non puoi
appuntarteli al muro e agli occhi
renderli commestibili:
sul bianco sfondo
non possedendo corpo
sono invisibili.
Come te sono i giorni,
e quale peso poi
rimpicciolito dieci volte
può avere un giorno?

III

Dirò: tu non esisti?
Ma cosa mai allora
di simile in te sente
la mia mano? e quei colori
d’inesistenza non son frutto.
E chi ha suggerito
quelle tue tinte?
Io non avrei la forza,
io, grumo borbottante
di parole al colore estranee,
di immaginare questa
tua tavolozza.

IV

Sulle tue ali piccole
pupille e ciglia
– o belle donne e uccelli –
o ritratto volante,
dimmi, di quali volti
questi sono frammenti?
E la tua nature morte
di quali particelle,
di quali briciole è fatta:
di cose, frutti?
o magari di pesci
un disteso trofeo?

V

Forse tu sei paesaggio;
attraverso una lente
scopro un gruppo di ninfe
e una danza e una spiaggia.
E fa chiaro laggiù come qui?
oppure è cupo come
di notte? e quale astro
percorre, di’,
quella volta celeste?
Quali figure
in quel paesaggio? e, dimmi, è copia
di quale vero?

VI

Penso che tu
sia questo e quello:
di volto, oggetto, stella
tu rechi i tratti.
Quell’orafo chi fu
che cesellò di fino
senza aggrottare i sopraccigli
sulle ali quel mondo
che ci stringe, che impazzire ci fa,
quel mondo dove tu
sei l’idea della cosa
e noi la cosa stessa?

VII

Dimmi, perché quel vago
ricamo ti fu dato in dono
soltanto per un giorno
nel paese dei laghi,
le cui specchianti superfici
conservano lo spazio? A te invece
questa breve esistenza
riduce la speranza
di finir dentro una retina
di tremolare in mano, di sedurre
al momento della cattura
l’occhio del cacciatore.

VIII

Non mi risponderai,
e non per timidezza
o per ostilità
nei miei confronti
e non perché sei morta.
Viva, morta… ma
a tutte le creature del Signore
in segno di affinità
per conversare, per cantare
la voce è data in dono:
per prolungare l’attimo,
ed il minuto, il giorno.

IX

E invece tu,
tu non hai questo pegno.
A rigore però
così è meglio:
meglio che con i cieli
essere in debito.
Non affliggerti, se
la tua vita, il tuo peso
son privi di parola:
è un fardello anche il suono.
Sei più incarnale
del tempo tu, più muta.

X

Tu non arrivi a vivere
fino a provare la paura.
Più lieve della polvere
vortichi su un’aiuola,
fuori dalla prigione
dove il passato e l’avvenire
ci chiudono e ci soffocano,
e per questa ragione
quando, in cerca di cibo, intorno
vai volando sul prato
anche l’aria d’un tratto
prende una forma.

XI

Così la penna va
sopra la carta liscia
di un quaderno, e non sa
come finisce
ogni sua riga,
dove si mescolano
saggezza ed idiozia
ma si fida dei moti della mano,
nelle cui dita batte la parola
del tutto muta,
senza togliere polline dai fiori,
ma facendo più lieve il cuore.

XII

Tanta bellezza
per così breve tempo,
spinge a una congettura
che fa storcer la bocca:
dire con più chiarezza
che il mondo per davvero
creato è senza scopo, o invece,
se scopo esiste mai,
non siamo noi.
Entomologo-amico, per la luce
non ci sono spilli
né per il buio.

XIII

Ti dirò “Addio”?
e addio al giorno che si compie?
a certi uomini la tigna dell’oblio
il senno corrompe;
ma bada, è tutta
colpa del fatto
che hanno dietro le spalle
non giorni a letto in due
non sonni fondi
o sogni folli,
non il passato, ma nubi
di tue sorelle!

XIV

Sei migliore del Nulla.
O meglio: sei più prossima,
sei più visibile.
Di dentro, ad esso
del tutto simile.
Nel volo tuo
il Nulla acquista carne;
nel quotidiano strepito
ecco perché
uno sguardo tu meriti:
sei la barriera lieve
fra il Nulla e me.

Iosif Brodskij


Cartina muta

Ora lo sai anche tu
lo sappiamo
mentre stiamo per rinascere.
                     FRANCO FORTINI

Entriamo adesso nell’ultima giornata, nella farmacia
dove il suo viso bianco e senza pace non risponde al saluto
del metronotte: viso assetato, non posso valicarlo,
è lo stesso che una volta chiamai amore, qui
nella nebbia della Comasina.
Camminiamo ancora verso un vetro. Poi lei
getta in un cestino l’orario e gli occhiali,
si toglie il golf azzurro, me lo porge silenziosa.
«Perché fai questo?»
«Perché io sono così», risponde una forma dura della voce,
un dolore che assomiglia
solamente a se stesso. «Perché io…
… né prendere né lasciare». Avvengono parole
nel sangue, occhi che urtano contro il neon
gelati, intelligenti e inconsolabili,
mani che disegnano sul vetro l’angelo custode
e l’angelo imparziale, cinque dita strette a un filo,
l’idea reggente del nulla, la gola ancora calda.

«Vita, che non sei soltanto vita e ti mescoli
a molti esseri prima di diventare nostra…
…vita, proprio tu vuoi darle
un finale assiderato, proprio qui, dove gli anni
si cercano in un metro d’asfalto…»

Interrompiamo l’antologia
e la supplica del batticuore. Riportiamo esattamente
i fatti e le parole. Questo,
questo mi è possibile. Alle tre del mattino
ci fermammo davanti a un chiosco, chiedemmo
due bicchieri di vino rosso. Volle pagare lei. Poi
mi domandò di accompagnarla a casa, in via Vallazze.
Le parole si capivano e la bocca                             ..
non era più impastata. «Dove sei stata
per tutta la mia vita…» Milano torna muta
e infinita, scompare insieme a lei, in un luogo buio
e umido che le scioglie anche il nome,
ci sprofonda nel sangue senza musica. Ma diverremo,
insieme diverremo quel pianto
che una poesia non ha potuto dire, ora lo vedi
e lo vedrò anch’io… lo vedremo,
ora lo vedremo… lo vedremo tutti… ora…
…ora che stiamo per rinascere.

Milo De Angelis

Gotan

Mirko Barone

Quella donna assomigliava alla parola mai,
dalla sua nuca saliva un incanto particolare,
una specie d’oblio dove conservare gli occhi,
quella donna si piazzava nel mio fianco sinistro.

Attenzione attenzione gridavo attenzione
ma lei m’invadeva come l’amore, come la notte,
gli ultimi segnali che feci per l’autunno
si addormentarono tranquilli sotto l’ondeggiare delle sue mani.

Dentro di me scoppiarono rumori secchi,
a pezzi cadevano la furia, la tristezza,
pioveva dolcemente la signora,
sulle mie ossa in piedi nella solitudine.

Quando se ne andò io tremavo come un condannato,
mi uccisi con un coltello brusco
ora passerò tutta la morte disteso con il suo nome,
che muoverà la mia bocca per ultima volta.

Juan Gelman

Pan

                                         Anke Merzbach


Mi danzava una macchia di sole
tepida sulla fronte,
c’era ancora un frusciare di vento
tra foglie lontanissime.
Poi venne
solo: la schiuma di queste onde di sangue
e un martellio di campane nel buio,
giù nel buio per vortici intensi,
con rossi colpi di silenzio- allo schianto.
Dopo
riallacciavano le formiche
nere fila di vita tra l’erba
vicino ai capelli
e sul mio- sul tuo volto sudato
una farfalla batteva le ali.

Antonia Pozzi

Questa sera la luna

Frances


Questa sera la luna dentro il mare
cadrà come una perla pesantissima.
E giocherà sopra di me la folle,
la folle luna.

Si frangerà l’onda color rubino
sui miei piedi spargendo mille stelle.
Le mie mani saranno diventate
due colombelle:

e saliranno – due uccelli d’argento –
a riempirsi di luna – come coppe
e di luna le spalle e i capelli
m’irroreranno.

Il mare è un oro fuso. Metterò
in una barca il mio sogno affinché
veleggi. Chiara, diamantina ghiaia
calpesterò.

Quando la luce l’attraverserà
sarà perla pesante il mio cuore.
E riderò. E piangerò… Ma guarda, ecco,
ecco la luna!

Kostas Kariotakis

Dimmi da dove s’alza il vento

Lachri


Dimmi da dove s’alza e che canzoni canta il vento,
in quale autunno, in quali gole oscure
farà di me mulinello.

Mi spiaccico come un insetto a ridosso d’un muro.

Dimmi da dove s’alza e che frustrate infligge il vento.
M’infilerò come una talpa in un cunicolo di buio
e aspetterò il mattino, se arriverà.

Mi avvolgerò dentro me stessa,
con gli occhi chiusi, i sensi intorpiditi.